venerdì 26 aprile 2013

Il PD alla deriva

Proponiamo due articoli interessanti che esaminano l'evoluzione del PD e i risultati di una politica senza anima, ma basata ormai solo sul potere.
Nel primo pezzo, Massimo Villone parla della degenerazione del PD, ormai diviso in potentati locali, con sempre meno legami con la base e con sempre più personalismi.
Nel secondo articolo proposto, Donatella Della Porta traccia un interessante parallelo tra il PD ed altri partiti di sinistra che, ingabbiati in coalizioni con la destra e ormai concentrati solo al palazzo e non più alle istanze popolari, si condannarono ad un rapido declino: il PSI negli anni 60 (che vide il proprio sostengo dimezzarsi) ed il PASOK negli ultimi anni. Una lezione che non sembra il PD abbia imparato.

La Caporetto dei democratici
di Massimo Villone
da Il Manifesto
                
Non pochi a sinistra pensano che la crisi stia avendo lo sbocco peggiore. Quel che esce dalla debolezza del Pd e dalla sorda indisponibilità del M5s può solo destare amarezza in chi per un momento aveva intravisto uno scenario non privo di promesse. 
Il centrodestra vince nel dopo-partita quel che il popolo sovrano aveva negato nelle urne.
La crisi del Pd. Un tempo sarebbe stato impensabile per un partito bruciare il segretario e poi vedere in pista il vice.  Oggi, si procede come se fosse un normale avvicendamento. In realtà, lo ha spiegato Bersani stesso, nell'ultima direzione Pd, parlando di personalizzazione estrema, anarchismo, feudalesimo.Tutto vero. Ma non lo sapevamo già? 
Il copione di queste settimane si scrive da almeno un ventennio. Dal ciclone dei primi anni novanta non si è mai inteso uscire ripulendo, ammodernando e rafforzando i partiti come strumenti indispensabili di una democrazia davvero partecipata. Sono state invece cercate vie alternative, che in particolare conducessero alla legittimazione popolare degli esecutivi. Non sfugge a nessuno come elezioni formalmente o sostanzialmente dirette e premi di maggioranza abbiano tolto significato alla rappresentanza politica e abbiano svilito la funzione delle assemblee rappresentative, un tempo naturale palestra per i partiti e per la formazione del ceto politico. È un paradosso che da tante parti si lamenti l'esito elettorale in Senato, e assai poco si noti che la governabilità alla Camera viene assicurata da una legge elettorale in forte odore di incostituzionalità. Una legge che ha tradotto un pugno di voti di vantaggio per la coalizione vincente in un vasto margine di seggi, espungendo al tempo stesso dall'assemblea forze pur sempre significative. Come se bastassero i numeri per governare un paese. Chi e cosa rappresenta davvero un'assemblea così costruita?
Qui vediamo un cedimento culturale della sinistra. Ha avuto per lungo tempo nel suo dna la centralità delle assemblee e della rappresentanza politica. Alla fine, non ha saputo difendersi. In questo paese, la destra ha vinto, prima che nei voti, imponendo una cultura politica che buona parte della sinistra ha finito con l'accettare. Con una variante che ne aggrava gli effetti negativi. L'investimento sulle autonomie fatto nel corso degli anni novanta nella illusione di rilegittimare il sistema politico ha - anche per alcuni macroscopici errori fatti nella riforma del titolo V della Costituzione - indebolito lo Stato, che appare oggi forte solo per lo schermo dato dalla crisi della finanza pubblica. Con una perversa sinergia tra localismo e personalizzazione, sono nate repubblichette regionali i cui primi attori sono sindaci e governatori. Le vittime di questa evoluzione sono stati i partiti nazionali e i loro gruppi dirigenti. Non possiamo meravigliarci se oggi siamo circondati da cacicchi.
Ma tutto questo Bersani non lo sapeva? Certamente sì. La sua stessa elezione a segretario è avvenuta con il sostegno di una galassia di potentati locali. Identica vicenda per gli altri componenti del gruppo dirigente. Ciascuno ha il suo seguito in periferia, e il partito è infine una sommatoria dei seguaci di questo o di quello. Era poi evidente che scegliere le primarie per gruppi dirigenti e ceto politico avrebbe inevitabilmente scatenato il conflitto interno tra fazioni e accresciuto il localismo e la frammentazione. Più ancora, la primaria aperta nega qualsiasi concetto di partito organizzato. Perché dovrebbe un iscritto impegnarsi quotidianamente se non sa quanto il suo voto varrà nei momenti decisivi della vita del partito? Nulla è stato fatto per prevenire o evitare il disastro, e niente accade per caso.
Ora, il centrodestra già alza la posta per lucrare sulla vittoria. Se si forma il governo, è probabile un remake di vecchi film, anzitutto sulle «necessarie» riforme. Come se i venti anni trascorsi e l'ultimo turno elettorale non mostrassero che l'ingegneria istituzionale non garantisce buon governo e buona politica, in specie se volta ad avere un uomo solo al comando e un obbediente parco buoi nell'assemblea che vorrebbe dirsi rappresentativa. Risentiremo invece il mantra del rafforzamento di governo e premier, della legge elettorale che garantisca la governabilità, del senato regionale. Mentre avremmo bisogno di ricostruire partiti veri, di combattere la frammentazione localistica, di svelenire il sistema politico togliendo la droga del maggioritario.
Questo paese chiede con forza eguaglianza, diritti, solidarietà. Per questo, ha certo bisogno di un governo forte. Ma non di un governo reso forte con i deboli, e debole con i forti.                                                                      

Il governo bunga-bunga e la protesta dentro il Pd


di Donatella Della Porta
da Sbilanciamoci.info

Che succede a un partito di centro-sinistra quando fa compromessi indecenti con la destra? L’abbandono della base e il declino elettorale sono le lezioni delle esperienze di Psi e Pasok
Mentre i vertici di Pd e Pdl cercano accordi di governo, attivisti del Pd in tutto il paese occupano sedi del loro partito, si autoconvocano, bruciano le loro tessere in pubblico o le restituiscono in privato. Se certamente l’oscenità di un governo del bunga-bunga a guida pidina è (o sarebbe?) circostanza storicamente unica, non è invece la prima volta che si formano, dentro e attorno a partiti di centro-sinistra, movimenti di opposizione a quelli che vengono considerati da chi protesta come compromessi indecenti, perché snaturanti rispetto a una identità sentita come collettiva.
Gli effetti di questi movimenti sono stati diversi, a seconda della loro forza nella base del partito così come della presenza di potenziali alleati ai vertici. Se talvolta quei partiti si sono infatti rinnovati, aprendosi alle domande dal basso, in altri casi c’è stata invece una chiusura, con almeno due effetti disgreganti: abbandono da parte degli attivisti delusi e declino in termini elettorali.
La perdita degli attivisti – spesso considerati con fastidio dai vertici – ha in genere conseguenze nefaste per l’organizzazione, abbassando le barriere rispetto alle motivazioni opportunistiche di chi entra in politica per migliorare la propria condizione economica, e allontanando invece quelli che vedono nella politica un bene comune. Il caso che meglio illustra l’implosione del partito senza più attivisti è quello del Psi. La decisione di partecipare, nel 1963, al primo governo di centro-sinistra porterà, l’anno successivo, all’uscita dell’ala, minoritaria ai vertici, ma fortemente attiva, che fonderà il Partito Socialista di Unità Proletaria. Al declino elettorale (dal 20% del dopoguerra, il Psi si dimezzerà in termini elettorali), seguirà una profonda degenerazione del partito stesso, frammentato in protettorati di politici rampanti, in un contesto di corruzione sempre più diffusa, che minerà l’identità di sinistra del partito, fino alla sua scomparsa a seguito degli scandali emersi nel 1992. Come nel caso del Psi italiano, anche in quello del greco Pasok, il Partito socialista panellenico, lo spostamento a destra, fino al sostegno a un governo di grande coalizione, si è intrecciato a un crollo elettorale di dimensioni drammatiche. Un partito che aveva il 47% dei voti negli anni novanta raggiungerà appena il 12% nelle elezioni del 2012, passando da primo a terzo partito nel paese, mentre a competere con la destra resta la Coalizione della sinistra radicale, Syriza, che riuscirà ad occupare lo spazio abbandonato a sinistra dal Pasok.
Psiup e Syriza sono interessanti illustrazioni delle potenzialità in termini di politica elettorale che l’implosione dei partiti di centro-sinistra può aprire alla sinistra. Il Psiup ha rappresentato un onesto tentativo di difendere un’identità socialista di sinistra, con aperture ai movimenti che si svilupparono alla fine degli anni sessanta. Non a caso, il partito guadagnerà sostegno elettorale da quelle proteste, raggiungendo quasi il 5% alle elezioni politiche del 1968. La struttura organizzativa del partito rimarrà comunque ancorata a un centralismo democratico che ne limiterà la capacità di attrazione per gli attivisti dei movimenti, che nel frattempo sperimentano forme organizzative più decentrate e partecipate. Dopo l’insuccesso elettorale del 1972, il partito si dividerà infatti tra adesioni al Pci e allontanamenti dalla politica partitica verso quella dei movimenti.
Molto diversa sembra invece l’evoluzione di Syriza che, nata nella tradizione della sinistra radicale, si trasformerà profondamente dal punto di vista organizzativo, riprendendo dal movimento degli indignados istanze di orizzontalità, pluralità e inclusione dal basso. Il 27% degli elettori greci voterà Syriza nelle seconde elezioni del 2012 (erano stati solo il 4,6% nel 2009), premiando non solo una coerente opposizione alle politiche di austerity, ma anche una trasformazione nelle forme e nei modi del far politica del partito, che lo porterà ad aprirsi ben al di là della tradizionale base dei partiti della sinistra radicale. Se è difficile dire in che misura il modello organizzativo proposto da Syriza sia applicabile al caso italiano, certamente le opportunità che il prevedibile declino elettorale del centro-sinistra, compromesso col Caimano, aprono a un’opposizione di sinistra non potranno essere colte senza una profonda trasformazione nella concezione stessa della politica. 

Il matrimonio di convenienza tra PD e PDL

di Nicola Melloni
da Liberazione

Guardando l’Italia di fine aprile 2013 sembra davvero di rivedere gli ultimi giorni di Weimar. Una classe politica ormai imbalsamata, incapace di decidere, rinchiusa nel Palazzo, mentre fuori soffia la bufera della crisi.
Un anno e mezzo fa il crollo della destra berlusconiana apriva praterie davanti ad un centro-sinistra impreparato, economicamente, culturalmente e politicamente a prendere l’iniziativa. In Italia la crisi economica era ormai anche crisi organica, di sistema, con la politica tutta incapace di rappresentare le diverse forze sociali, di governare il cambiamento, di organizzare la società. All’orizzonte allora si stagliava un governo di tecnocrati capitanati dall’ex eurocommissario Mario Monti che metteva sotto tutela il Parlamento e la Repubblica tutta, in nome dell’Europa e dei mercati. Non era Monti però il deus ex machina di questa operazione, ma Giorgio Napolitano che aveva imposto alle forze politiche un tale compromesso. Tant’è che per tutta la durata di quel governo il Presidente della Repubblica si incaricò di fare da tutor ad un Premier impacciato e ad un gruppo di ministri mediocre e assolutamente incapace. Facendosi garante di un equilibrio politico conservatore se non reazionario, di difesa dello status quo, di arroccamento su vecchi modelli consociativi, ignorando in maniera plateale le richieste di cambiamento. Esplicativa in questo senso la famosa battuta sul boom dei 5 stelle, ribadita nuovamente nella scelta dei saggi che escludevano il Movimento di Grillo per puntare tutto sulle forze sconfitte e decrepite della politica tradizionale.
D’altronde Napolitano ha usato tutto il potere a sua disposizione, e forse anche di più, per impedire la nascita di un governo di cambiamento, ribadendo anche quando fu dato l’incarico a Bersani che la strada maestra era quella della Grande Coalizione. Una scelta che, dopo l’illusorio tentativo di formare il governo, è stata poi fatta propria dal PD che prima ha tentato la carta Marini e poi è tornato appunto su Napolitano. Ma non è il “compromesso storico” tra due forze in ascesa, rappresentanti di grandi interessi sociali ed economici, ma un matrimonio di convenienza tra due forze politiche in ritirata, incapaci di interpretare il cambiamento, proprio come la SPD e la destra tedesca a inizio anni Trenta.
La scelta di Letta si adatta perfettamente a tale schema ed è in sostanziale continuità con quella di Monti. Un Primo Ministro che risponde direttamente al Quirinale e non al Parlamento, un uomo gradito a grandi imprese, banche, quella parte del Paese che ha portato l’Italia nella crisi attuale, che ha lucrato nella lunga stagione della Seconda Repubblica e che rifiuta il cambiamento. Di fronte ad una crisi epocale, con il vecchio sistema ormai morto e con il nuovo incapace di nascere, la soluzione Napolitano-Letta è un tentativo reazionario di salvare le vecchie classi dirigenti, di garantire i potentati economici, di reimpostare su basi regressive il contratto sociale – democrazia svuotata, diritti annacquati, indebolimento del lavoro. Per tornare a Gramsci, una rivoluzione passiva di stampo conservatore.
Quello che però non è chiaro è la reale solidità di queste forze, incapaci di proporre un qualsiasi disegno strategico, aggrappate più che altro al proprio interesse personale, emarginate dai grandi processi mondiali di ristrutturazione del potere e dell’economia. L’immagine della scorsa settimana di un palazzo assediato raffigura molto bene lo stato attuale della politica italiana. Il malcontento, la rabbia, la disperazione rischiano di esplodere da un momento all’altro e possono prendere qualsiasi forma. L’implosione del PD apre nuove possibilità di riorganizzazione per la sinistra ma allo stesso tempo la solo rimandata esplosione del blocco sociale berlusconiano potrebbe dare vita a formazioni politiche ancor più reazionarie con Grillo che al momento rischia di catalizzare la protesta. Come a Weimar, una politica legale ma ormai illegittima si rinchiude in se stessa mentre fuori il mondo cambia.

L'Angelo Sterminatore - Luis Bunuel, 1962

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La cineteca politica di RI
di Giulia Pirrone

Gli invitati ad una cena che si tiene in una lussuosa villa passano una bella serata, a tal punto da trattenersi fino alle 4 del mattino prima che qualcuno si accorga che si stia facendo tardi. Ma tra regole di bon-ton e dubbi timidamente espressi nessuno si decide ad andar via. Passa la notte e si e' tutti ancora dentro la villa, si comincia ad interrogarsi sulla ragione per cui non si sia andati via. Tra i se ed i ma, chissà, boh, come, quando e perché, nessuno sembra saper nulla, ne' sembra possedere gli strumenti per prendere una decisione. E così passano giorni e notti mentre la ripetitività genera nevrosi e morte. Alla fine poi l'incantesimo verra' spezzato…anche se solo per poco.

Non preoccupatevi, non e' un vostro incubo sulle vicende della dirigenza del PD o più in generale su quelle politiche dell' Italia. E' soltanto un film.

Ancora una volta siamo andati a ripescare nel passato per raccontare gli eventi presenti, a dimostrazione che la nostra società non ha sviluppato una grande comprensione di se stessa nel frattempo.
Questa volta siamo finiti in Messico dove nel 1962 Luis Bunuel realizzo' L'Angelo Sterminatore, finalmente fuori dall'Europa e libero dalla censura franchista.

Anche se ricco come la maggior parte dei film di Bunuel di elementi surrealisti portati alla realtà' dal mondo dei sogni, il film ha una trama piuttosto lineare nella sua circolarita'. Gli eventi ricorrono quasi all'infinito, in una dannazione che le  vittime stesse scelgono di imporsi con la loro incapacità di individuare le proprie intenzioni.
Quando non si comprende la realtà e non si accetta il divenire e l'evoluzione delle cose si vive prigionieri di un eterno presente. Certo, così ci si addentra in un tema molto delicato sia per l'individuo che per la società' intera,  quello dell'immutabilità, che pur non essendo della natura umana, sembra essere la massima ambizione della nostra classe politica.
E d'altronde mai avrei immaginato di trovare consolatorio il principio per cui tutte le vicende umane hanno un termine. Ma magari questo lascia aperta la speranza che anche da noi un giorno qualcosa cambierà.

L'Angelo Sterminatore del titolo e' un demone apocalittico che condurrà l'esercito dell'Abisso per tormentare i vivi per cinque mesi.