lunedì 30 aprile 2012

Corso di spagnolo per immagini.
Parte II: La banca
Di Monica Bedana


- E' una lettera della banca. Se deposito 20 euro a scadenza fissa di 6 mesi il revisore dei conti mi bacia con la lingua.
- ...e meno male che abbiamo "la situazione bancaria più sana del mondo"

S&P ha declassato la solvenza di ben 11 banche spagnole, tra cui Santander e BBVA. In un futuro prossimo ci vorrà molto più di un bacio con la lingua per un deposito. Ci vorrà minimo sesso duro e sicuro.

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LA MAFIA FA SCHIFO....E ANCHE GRILLO

Che orrore, che squallore.
Grillo ne aveva già dette e fatti di tutti i colori: se l'era presa a più riprese con gli immigrati - tanto che i suoi liberissimi eletti avevano "in autonomia" deciso di votare contro la concessione della cittadinanza agli immigrati nati in Italia (tipico caso di democrazia digitale, decide il capo e il forum digitale non viene interpellato); ultimamente aveva pure trovato una bella giustificazione per gli evasori fiscali, tanto è lo Stato a rubare.
Ora si dedica a un tema più grande di lui, la crisi e la mafia. E parlando a Palermo, alla vigilia del 30 esimo anniversario della morte di Pio la Torre, maramaldeggia così:
"La mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la propria vittima".
Che ignoranza crassa. Immaginiamoci lo avesse detto qualcun'altro, chissà che polverone! Ma essendo abituati alla marea di cazzate che spara ogni volta che apre bocca, con Grillo ci siamo abituati. Parla per paradossi, ci mancherebbe. Se l'avesse detto Berlusconi, minimizzava la Mafia per fare l'occhiolino ai boss. Se lo dice Grillo invece....
Invece basta una piccola precisazione sul suo blog:
"La mafia ha tutto l'interesse a mantenere in vita le sue vittime. Le sfrutta, le umilia, le spreme, ma le uccide solo se è necessario per ribadire il suo dominio nel territorio. Senza vittime, senza pizzo e senza corruzione come farebbe infatti a prosperare? La finanza internazionale non si fa di questi problemi. Le sue vittime, gli Stati, possono deperire e anche morire. Gli imprenditori possono suicidarsi come in Grecia e in Italia. Spolpato uno Stato si spostano nel successivo. Questo è il senso delle mie parole di ieri a Palermo. "
E qui Grillo dimostra ancora soltato la sua inadeguatezza culturale, il suo parlar di nulla. Lo sfruttamento, l'umiliazione, il tenere in vita per poter spremere il più possibile, è semplicemente riprendere (senza saperlo, ovvio) quello che diceva Marx sul capitalismo già 150 anni fa. E di fatti si parlava di proletari, coloro che lavorano solo per riprodursi ed hanno come unico bene la propria prole. Capitalismo, Grillo, hai capito? E quello che tu critichi quando parli di finanza è proprio quel capitalismo di Marx, che si certo distrugge ma crea pure, sempre e soltanto con l'obiettivo dello sfruttamento. 
Ma la cosa più patetica di questa storia è leggere i commenti fideistici dei suoi seguaci, guai a toccare il capo, manco fosse Stalin. Tra le chicche lette, lo Stato ed i partiti sono molto peggio della mafia per gli scandali della malasanità. Lo andasse a dire a Falcone e Borsellino, o Pio la Torre, che lottavano per uno Stato pulito senza mafia.
Cervelli (ma forse è una parola esagerata) all'ammasso. La Mafia fa schifo, e Grillo pure.  


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Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"
30 aprile 2012

The City of London

Il fallimento annunciato dell'austerity
Lo scorso 23 Aprile Eurostat ha rilasciato un suo documento ufficiale con i dati sui conti macroeconimici su Eurozona e EU-27. Vi si attestava che nel 2011 il deficit è diminuito (dal 6.2% del PIL al 4.1% nella zona Euro) ma, al contempo, il debito è aumentato (dall'85.3 all'87.2%).
Cosa è successo? Molto semplicemente è successo che le politiche di austerity hanno peggiorato il debito nonostante siano riuscite a ridurre il deficit. Molti ancora confondono i due termini, il deficit è la differenza, calcolata ogni anno tra entrate ed uscite dello Stato...leggi tutto l'articolo


Serenissima

Notizie sulla cultura?
No, le notizie di, sulla e per la cultura sono quasi introvabili.
In compenso abbondano quelle sui tagli alla cultura.
L'Agenzia spagnola di cooperazione e sviluppo annulla la maggioranza delle cattedre dei lettori di spagnolo all'estero. Su 211 ne taglia 154, ma non le taglia a caso. Taglia quelle nei Paesi che di cooperazione e sviluppo hanno bisogno...leggi tutto l'articolo

domenica 29 aprile 2012

Lo spagnolo per frasi.
Corso per principianti precari (o disoccupati, o extracomunitari)
Di Monica Bedana

L'auto da fé del quasi salmantino Pedro Berruguete, nel Museo del Prado

Questa domenica i sindacati spagnoli si sono messi di nuovo in prima fila per guidare le piazze alla "ribellione democratica pacifica" contro l'assalto al welfare del Paese.
Rajoy ha fatto giungere ai manifestanti questo messaggio: "Ogni venerdí si fanno riforme e quello dopo, pure" (Cada viernes, reformas, y el que viene, también). Come dire, oltre cinquecento anni dopo, auto da fé ogni venerdí. Confermare presenza, gradito il sambenito scuro.

Immolata sul rogo -finora inutilmente- la spesa pubblica al completo, Mariano si dichiara "perplesso per la mancanza di appoggio dei mercati" (perplejo por la falta de apoyo de los mercados). Quindi sta già pensando che dopo l'espulsione degli ebrei del 1492, il 2012 potrebbe essere l'anno buono per espellere tutti gli extracomunitari che ingrassano le liste dei disoccupati da quando la bolla immobiliare è miseramente scoppiata. Poi penserà ai comunitari. Ci devo pensare anch'io.
(Nel frattempo agli extracomunitari non in regola -lista infinita dei cavilli per cui non si è in regola- è negata l'assistenza sanitaria pubblica, eccetto al pronto soccorso. Si irrigidiscono anche le condizioni di accesso alla sanità pubblica anche per i residenti UE. Il Governo ci esige di dimostrare che non siamo un peso per l'assistenza sociale in Spagn a(demostrar si dispone, para sí y los miembros de su familia, de recursos suficientes para no convertirse en una carga para la asistencia social en España durante su periodo de residencia). Quello che esige agli spagnoli ve lo racconto un'altra volta. E vi racconterò come in questo modo si sta favorendo la propogazione di malattie finora perfettamente controllate come l'Aids).

Sul tutto, l'opposizione ironizza, per bocca di Rubalcaba: "Rajoy non sia l'ultimo dei moicani dell'austerità" (tiene que dejar de ser el último mohicano de la auteridad).

Cercheremo almeno di vendere caro lo scalpo.

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sabato 28 aprile 2012

Sarkozy, nuovo Pétain?
A cura di Nicola Melloni



Dalla copertina de "L'Humanité", l'organo del PCF.
Destra/Estrema Destra: il raid di Sarkozy sul Primo Maggio.Il capo dello Stato tenta di lanciare un'OPA sulla festa dei lavoratori per rimorchiare le voci del Front national. Un discorso stile Pétain, denunciato dalla sinistra e dai sindacati.

Sarkozy, 19 febbraio 2012:
"Per cinque anni ho potuto calcolare la potenza dei organismi intermedi che si frappongono tra il popolo e la cima dello Stato, quegli organismi intermedi che hanno spesso la pretesa di parlare in nome dei Francesi e che, in realtà, spesso confiscano la parola ai francesi".

Philippe Pétain, 11 ottobre 1940:
"Mai come durante gli ultimi venti anni nella storia della Francia lo Stato è stato più asservito da delle coalizioni di interessi economici e da dei gruppi politici o sindacali che pretendevano di rappresentare -in modo fallace - la classe operaia".


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Rassegna stampa:
"La riforma Fornero",
Di Gianni Giovannelli

Articolo segnalato da Veronica Collalti

Il disegno di legge governativo elaborato, dopo innumerevoli compromessi, dal ministro Fornero sarà esaminato dalla Commissione Lavoro del Senato a partire dal 18 aprile, in sede cosiddetta referente (e non deliberante, ovvero dovrà necessariamente passare al vaglio delle due Camere, con possibili modifiche: segnale questo, non equivoco, di un qualche conflitto, perché ove il tripartito che sostiene Monti fosse stato totalmente d’accordo si poteva procedere all’approvazione già in Commissione). La commissione è di 25 membri; ci sono tre sindacalisti di professione (e di lungo corso: Nerozzi, Troilo e Passoni), per il resto la rappresentanza imprenditoriale domina la scena (anche nel PD: Ichino è un avvocato delle grandi aziende; Rita Ghedini è una funzionaria di vertice delle cooperative emiliane; Adragna e Blazina sono dirigenti)...leggi tutto l'articolo

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Quando la cronaca politica ed economica schiaccia i cittadini...
Di Francesca Congiu

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro
e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale e spirituale della società.

(Art. 4 della Costituzione della Repubblica italiana)

Quando la cronaca politica ed economica schiaccia i cittadini tra tecnocrazia e populismo, bisogna
ritornare alla consapevolezza della democrazia. Ma se la democrazia non esiste più o è sottratta
proprio dalle istituzioni che dovrebbero garantirla, uno da solo se la può riprendere? Come
il “coraggio” di manzoniana memoria, uno da solo se lo può dare? A questo proposito, a qualche
giorno dalla Festa della Liberazione e in coincidenza con un altro anniversario fondamentale,
la morte, 75 anni fa, di Antonio Gramsci, mi piace segnalare questo libro che racconta la storia
dello “sciopero alla rovescia” di Danilo Dolci a Partinico nel 1956:

Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio, Palermo 2011

http://www.sellerio.it/it/catalogo/Processo-Articolo/Dolci/4819

Un pezzo di storia del nostro Paese per riflettere sui concetti “concreti” di libertà, democrazia,
diritti, una storia raccontata attraverso i documenti, dagli antefatti al dibattito processuale, inclusa
l’udienza con le numerose testimonianze (tra cui quelle di Bobbio, Vittorini, Levi). Processo
all’articolo 4 fa comprendere appieno “quanto fosse tribolata la strada per affermare la democrazia
repubblicana in Italia”.

Vi invito anche a leggere l’arringa di Piero Calamandrei (contenuta nel libro), testimonianza di
un engagement diretto, che aiuta a domandarci “dove saremmo oggi, senza ribellioni e ribelli” in
difesa della Costituzione e del lavoro, contro ogni forma di imposizione e autoritarismo. Perché
la resistenza non è mai fine a se stessa o “a tavolino” e, di più, proprio quando la resistenza è un
rischio è quello il momento di fare resistenza.

Con una retorica altisonante e legata alle condizioni storiche in cui è stata scritta, nonché ricca
di riferimenti letterari (la legge come interprete dell’uomo), l’arringa di Calamandrei è un
grandissimo discorso sul quarto articolo della Costituzione:

http://www.danilodolci.toscana.it/calamandrei.htm

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venerdì 27 aprile 2012

Aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"
27 aprile 2012

The City of London:
"La buffa storia del patto per la crescita"


Se ne parla sempre, in continuazione: dobbiamo rilanciare la crescita. Lo si diceva negli anni passati, lo si dice a maggior ragione ora che l'economia si inabissa e i conti peggiorano col calo del PIL. Ma come dice la canzone, sembran più che altro "parole, parole, parole".
Qualche mese fa, uno dei primi grandi successi diplomatici del governo Monti, l'asse con la Gran Bretagna per rilanciare l'economia. Oggi, nuovo alleato, la Germania, stesso annuncio: avanti con la crescita. Di sicuro il governo non è fortunato nella scelta dei propri partners. Il fallimentare governo di Cameron e Osborne ha appena riportato l'economia inglese in recessione, il tanto temuto double dip che avevo anticipato 15 mesi fa. Ora siamo passati alla Merkel, cioè una delle principali responsabili della crisi europea, quella dei conti pubblici prima di tutto, a costo di ammazzare l'economia. Forse si tratta solo di sfortuna. O forse no, se leggiamo quello che Monti intende per crescita...leggi tutto l'articolo

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giovedì 26 aprile 2012

Real Madrid e Barcellona: lo specchio calcistico di un Paese alla frutta
Di Monica Bedana

I soldi che cadono dal cielo sono immediatamente seguiti da tasse d'inferno.
Legge di Ruane sull'equilibrio finanziario.


La Spagna è un Paese dove alla domenica si può ancora andare allo stadio con tutta la famiglia, adulti e bambini insieme, senza timore di uscirne manganellati e in ambulanza. Questa cosa mi è sempre sembrata un eccellente riflesso della maturità di una società che ha provato a costruire la sua giovane democrazia su un genuino sforzo di integrazione senza ombre, seppellendo quarant'anni di dittatura sotto la voglia universalmente condivisa di vivere finalmente nel Paese libero, moderno e senza complessi che gli spagnoli e la loro Storia meritano senza dubbio.

Il loro grande calcio è un barometro infallibile dello “stato della Nazione”, molto più del bilancio annuale che ne fa il Presidente del Governo in Parlamento. E quest'anno non ci sarà bisogno di aspettare il discorso ufficiale per sapere che il Paese è in ginocchio ed ogni sogno si è infranto; l'eliminazione del Barcellona e del Real Madrid dalla Champions sono la parabola di un presente triste ed un futuro buio. E di molti fantasmi del passato che rispuntano.

E' finito il tempo del gioco etereo del Barcellona, una danza di mille passaggi perfetti e la rifinitura maestra di un solo uomo-simbolo; non a caso Zapatero tifava Barcellona e sua è stata l'epoca della gestione delle vacche grasse che pareva non doversi esaurire mai, l'entusiasmo delle conquiste sociali, le abbondanti concessioni in materia di autonomia a quella stessa Catalogna la cui gestione economica  si è rivelata molto poco oculata e ora, sul filo della bancarotta, emette bonus patriottici e taglia alla greca la spesa pubblica. E reclama protezione ed aiuto proprio a quello Stato centrale che ha sempre rinnegato quando aspirava ad essere soggetto indipendente in Europa.

Dall'altro lato il Madrid di Mou, poco gioco ma molta capacità di andare in gol e di tutto quel che non riesce a fare in campo dà la colpa alla Uefa, agli arbitri, alla stampa e perfino, se è il caso, ai suoi stessi giocatori. E' questo Madrid che risuscita i fantasmi del passato, le due Spagne mai più riconciliate fino in fondo, il ritorno di quello stile anni quaranta di chi ti aspetta in un parcheggio con l'intenzione poi di gettarti in un fosso da un' auto in corsa, precario, pensionato o dipendente pubblico che tu sia. Lo stile di chi nega senza spiegazioni agli indignados la Puerta del Sol per ricordare le proteste di un anno fa; di chi cancella via dikat il pluralismo nell'informazione pubblica mentre fa spazio alla voce della chiesa cattolica contro l'omosessualità, che anche questa ci rende poco credibili ed affidabili. Eppure, per quanto ci si sforzi di compiacerla, di piegarsi alle sue esigenze, quest'Europa ci punisce: in economia come nel calcio.

La versión en español del texto aquí.

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mercoledì 25 aprile 2012

Ma la Resistenza non è stata un pranzo di gala


Per festeggiare il 25 aprile, abbiamo rubato due cose: il logo del "Bella Ciao" di molte piazze italiane (in concreto di quello di Piazza Dante a Verona, grazie, siamo lí con voi!) e l' articolo riportato sotto, di Matteo Pucciarelli da "Micromega" . Su Serenissima invece c'è Beppe Fenoglio ed un ricordo per gli altri partigiani della letteratura.
"Sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano".

Buon 25 aprile a tutti,
da Resistenza Internazionale

Dietro al concetto politicamente corretto del “rispetto dell’avversario” che tanto va di moda, e che parifica idee diverse tra loro come egualmente legittime, si nasconde la grande bugia – resa verità a buon mercato – di questi ultimi venti-trenta anni di sdoganamento storico e morale del neofascismo italiano.

Il disegno insito nella più grande ideologia moderna – spacciata come dottrina anti-ideologica per eccellenza – è quello degli opposti estremismi. Utile e finalizzato a mettere sullo stesso piano partigiani e ragazzi di Salò. Studenti del liceo di “estrema sinistra” e di “estrema destra”. La curva con la bandiera del Che Guevara e quella con gli slogan nazisti. I libri neri sul comunismo e quelli sul nazifascismo. Le foibe da una parte, i rastrellamenti a Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e tutto il resto dall’altra. Tutti colpevoli, e allora tutti uguali. E quindi, se i ”rossi” possono parlare perché non posso farlo anche i “neri”?

Di un fraintendimento del genere è rimasta vittima anche la sinistra. Il primo a legittimare il Msi fu, non a caso, un socialista: Bettino Craxi. Oggi ci si accontenta dei Piero Sansonetti, dei Giampaolo Pansa, dei Luciano Violante, dei grillini che citano Pertini a sproposito: perché la tolleranza – secondo loro – va applicata sempre e a tutti, anche verso chi dell’intolleranza fa il proprio credo.

Invece – vaglielo a spiegare – i nostri padri costituenti ci avevano spiegato già tutto, ben prima che questi novelli guru si erigessero a paladini delle libertà (di far danno). Se avessero vinto i ragazzi di Salò, quelli come Togliatti, Nenni e De Gasperi sarebbero stati confinati a Lipari, a voler essere buoni. Vinse la democrazia, e gli Almirante, i Romualdi e i Michelini poterono accomodarsi tranquillamente in parlamento. Ecco qual è stata la differenza, la riprova di chi allora stava nel giusto e chi nel torto.

La Resistenza non è stato un pranzo di gala. È stata sangue, violenza e sacrificio. Sangue di innocenti contro sangue di colpevoli. Il buonismo da salotto di settanta anni dopo è partigiano. Partigiano dalla parte sbagliata. Chi crede ancora in quei valori non fa paragoni né celebra riti di equidistanza. Le cose vanno dette per quel che sono, senza derubricarle a folklore: chi non festeggia il 25 aprile, oggi come allora, è un nemico della democrazia.

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lunedì 23 aprile 2012

L'indigesta privatizzazione argentina di Repsol YPF
Di Monica Bedana

Legge della realtà:
Per quanto ravvicinate siano due opinioni, la realtà troverà il modo di infilarcisi in mezzo

In mano di Kristina Fernández de Kirchner, un campione di petrolio argentino

In Spagna non ce la passiamo affatto bene da tempo. Non è più il Paese che tutti consideravano molto fico quando venivano a sapere che qui abito, quello in cui tutti volevano trasferirsi per le politiche sociali, l'economia prospera, la movida infinita.
Adesso siamo la cavia del FMI per misurare il successo (?) dell'applicazione delle misure di austerità; siamo il Paese che produce 7 di ogni 10 nuovi disoccupati dell'UE (oltre il 40% la disoccupazione giovanile). Siamo quelli col mercato del lavoro più liberalizzato e, nonostante ciò, con meno sintomi di ripresa della crescita economica; siamo i primi ad aver messo il pareggio di bilancio nella Costituzione, quelli che lottizzano la televisione pubblica di un solo colore blu popolare dopo anni di prodigiosa indipendenza informativa. Tagliamo di netto la sanità e la scuola pubblica, facciamo pagare il ticket ai pensionati, obblighiamo chi non può più pagare il mutuo a mantenerne la responsabilità penale anche quando ha già consegnato alla banca la casa; il nostro re, nel frattempo, va a caccia di elefanti in Botswana. E a proposito del settore bancario, ricapitalizzazione dopo ricapitalizzazione non c'è verso che riattivi l'economia reale mettendo in circolo anche solo una minima parte del denaro che prende ad interessi zero dalla BCE. 

Siamo quelli il cui Governo è uscito dalle urne con maggioranza assoluta e la applica in modo assolutistico nella figura di Rajoy, negando ad opposizione, sindacati e cittadini il confronto da cui dovrebbe uscire ogni democratico consenso. Una contrazione progressiva ed inesorabile di diritti del cittadino in termini di benessere sociale che manda in porto duramente e sistematicamente l'esatto contrario di quanto promesso in una campagna elettorale troppo recente per essere dimenticata. 
Siamo tutto questo; non siamo un buon esempio di esercizio della democrazia ma ci indignamo se ce lo strofina sotto il naso l'Argentina, quella ex-colonia che ha voluto riprendersi l'impresa più rappresentativa ed intrinsecamente legata alla storia del Paese nazionalizzando il 51% delle azioni di Repsol YPF.

Il 77% degli spagnoli non approva questa nazionalizzazione; il 60%  appoggia le misure di ritorsione annunciate da Rajoy nei confronti del Governo Kirchner; se tutta questa gente sapesse che il primo provvedimento preso consiste nel frenare le importazioni dall'Argentina di biodiesel e quindi favorire la produzione nelle centrali spagnole, vedrebbe magari l'espropriazione come un'opportunità per rimettere in piedi un settore che in Spagna è in ginocchio ed ha perso 3000 dei suoi 4000 tecnici. 

In Argentina Repsol è accusata di non aver investito a sufficienza, di non aver messo a disposizione né capitale né tecnologia, di aver provocato un crollo della produzione che ha obbligato a massicce importazioni di idrocarburi dall'estero, assurde in un paese in cui questa materia prima abbonda in tutte le sue forme. I dividendo agli azionisti però non sono mai venuti meno, mantenendosi sempre tra un vergognoso 80%- 120%. Il Governo argentino è stato a lungo compiacente, ma ora è entrato alla Casa Rosada un giovane keynesiano, Axel Kicillof , professore di economia marxista all'università di Buenos Aires, che ha ricordato senza peli sulla lingua al Senato del suo Paese, alla Spagna e all'Europa tutta che loro hanno già vissuto una recessione come la nostra, che hanno sperimentato sulla propria pelle che non è togliendo l'aria ai pensionati che si rivitalizza la domanda interna, la produzione, la crescita. Che in tempo di crisi lo Stato non è il problema ma la soluzione, che è compito dello Stato essere il motore della rinascita economica e per questo non gli si possono togliere risorse vitali come quell'energia che dovrebbe essere pubblica e che paga invece investimenti privati oltre frontiera e dividendo altissimi ad un'oligarchia.
I critici lo chiamano capitalismo di Stato, protezionismo, intervenzionismo governamentale; ora quello Stato, per tutta risposta, deve provare di avere i mezzi e la strategia per attuare una politica energetica che lo sleghi dalla dipendenza esterna e riporti YPF ai tempi in cui fu la prima impresa energetica statale al mondo, quella che ha accompagnato il Paese per quasi metà della sua Storia.

La nazionalizzazione avviene in un momento cruciale per l'economia politica argentina (alle prese anche con un'inflazione mai dichiarata che supera il 25%) e quella energetica mondiale (prezzi altissimi per l'energia) ed è pregna di una forte dose di sentimento nazionale che va di pari passo con la rivendicazione delle isole Malvine. Il quadro generale che si prospetta, se ben gestito, potrebbe segnare una svolta ed un esempio per mezzo mondo di come potrebbe ancora esserci spazio per un'economia politica che non avvilisce lo Stato, i suoi cittadini e, di conseguenza, la democrazia. Sperando che in questo caso il capitalismo di Stato non nasconda un capitalismo di amici del Governo.

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La crisi morde la Francia e la destra sale
Di Nicola Melloni

L'avevamo detto in questi mesi, non è una crisi solo economica. Quello che stiamo attraversando è un cambiamento di paradigma che coinvolge tutti gli aspetti del vivere sociale, a cominciare dunque dalla nostra democrazia.
In Francia la crisi non ha ancora avuto un suo aspetto virulento paragonabile ai tagli greci o alla disoccupazione spagnola. Eppure il Fronte Nazionale sfiora il 20%. Una Francia profonda che cerca risposte nell'identità nazionale, nel razzismo, nel rifiuto degli immigrati e dei diversi, nel rifiuto dell'Europa di Bruxells. Una risposta classica alle crisi sociali. Anche la Sinistra che rifiuta questo modello di sviluppo e questa economia cresce ed ottiene un ottimo risultato con Melanchon, ma non nascondiamoci dietro un dito: i vincitori sono quelli della destra xenofoba, che hanno scavato, pazienti, per anni, per lustri, ormai per decenni in quelle che erano una volta le roccaforti dell'operaismo e della militanza a sinistra. 
Questi rapporti di forza, questi tragitti politici di lungo raggio non si possono invertire nel corso di una campagna elettorale, per quanto brillante. Bisogna ritornare nelle "officine, dentro terra, pei campi, al mar" alla ricerca di quella "plebe sempre all'oper china, senza ideale in cui sperar", abbandonata dalla democrazia dalle banche e, per troppo tempo, dalla sinistra che era corsa dietro il mito del mercato.
Ora bisogna ripartire, ripartire dall'ottimo risultato della Gauche francese e della Izquierda spagnola, ripartire da una sinistra europea perchè siamo tutti sulla stessa barca scossa dai venti procellosi della crisi. E solo una barca solida, in cui tutti remano nella stessa direzione e non legati alla differenze nazionali, può portare l'Europa democratica fuori dal gorgo. Prima che sia troppo tardi.

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sabato 21 aprile 2012

Corso di traduzione spagnolo- italiano per immagini


Espressione italiana: "Avere la faccia come il culo"
Traduzione spagnola:
Dottor Pérez
specialista in disturbi della spiegazione delle azioni politiche

"E' evidentemente un culo, signor Ministro"

(ogni riferimento al Ministro Fornero è puramente casuale)

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Un, due, tre Stella: "Non aprite quella scuola"
(l'orrore della scuola italiana. Questo weekend risparmiatevi il cinema)


Segnalato da Simone Rossi.

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venerdì 20 aprile 2012

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale", 20/04/2012

The City of London:
"L'incompetenza dei tecnici"

Un errore dopo un altro, altro che riforme. Dopo quasi 6 mesi al potere questa è la cifra del governo tecnico che avrebbe dovuto salvare l'Italia.
Pronti? Via, si parte e c'è subito la riforma delle pensioni, per cui è stata addirittura nominata ministro lady Fornero, supposta massima esperta italiana nel settore. Ma in tanti anni di studio si è dimenticata degli esodati, insomma ha dei conti finti. Quando poi la cosa salta fuori, è la fiera del principiante, danno tutti i numeri e non è un bel vedere. Soluzione all'amatriciana, ci occupiamo di quelli di quest'anno, poi vedremo...Leggi tutto l'articolo.


NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18!
(Ultima parte)

Nel ricordarvi ancora una vola l'appello di questa settimana, vi mettiamo a disposizione la lista delle prestazioni a sostegno del reddito cliccando qui.


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giovedì 19 aprile 2012

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18!
(IV parte)Di Giovanni Alleva

Continua oggi la nostra rassegna sulla riforma del lavoro analizzata da giuslavoristi indipendenti. Per firmare la petizione già proposta nei giorni scorsi, ricordiamo il link:


Punti critici della riforma del mercato del lavoro in tema di flessibilità in entrata
e in uscita ed interventi indispensabili.


La diffusione del testo del disegno di legge in materia di riforma del mercato del lavoro ha suscitato contrastanti reazioni caratterizzate, in generale, da un atteggiamento fortemente negativo nei settori conservatori, imprenditoriali ed in genere del centro-destra, e da' un giudizio positivo o addirittura molto positivo nel settore del centro-sinistra e di alcune confederazioni sindacali Cisl e Uil (soprattutto
la Cisl).
L'impressione diffusa è che si sia trattato, alla fine, di un successo soprattutto del PD e del suo segretario On. Bersani in accordo con la CGIL e che il simbolo di tale successo sia la previsione di possibilità di reintegra ex art. 18 st.lav. (nuovo testo) anche con riguardo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (o economico). Forse il peggio è stato evitato, ma a parere di chi scrive vi è assai poco o nulla da gioire perché nel complesso tutta la riforma realizza un arretramento delle tutele e non solo con riguardo all'art. 18, perché la limitazione – d'altro canto più apparente che reale – su questa materia è stata pagata ad alto costo su altri e non meno importanti argomenti, quali la flessibilità in entrata, non diminuita ma ampliata essa
stessa, i licenziamenti collettivi e gli ammortizzatori sociali.

Poiché, però, tutte le valutazioni di insieme sono sempre altamente soggettive e opinabili, quello che importa è entrare nel merito dei singoli problemi e delle singole soluzioni con metodo quanto più possibile rigoroso dal punto di vista tecnico-giuridico e capacità di comprendere come le singole norme possano finire, poi, con il concretizzarsi in sede giudiziaria ed extragiudiziaria, modificando il rapporto di forza fra le parti sociali. Quel che importa, inoltre, visto che si tratta di un disegno di legge naturalmente aperto a possibilità di emendamenti è capire in che modo le singole norme potrebberosubire modifiche formalmente ridotte, ma di grandi conseguenze concrete sul piano regolativo.
* * *

1) FLESSIBILITÀ IN ENTRATA
Vale dunque la pena di seguire l'articolazione del disegno di legge ed occuparsi anzitutto della flessibilità in entrata ossia delle tipologie dei contratti precari, la cui sostanziale riduzione o “messa in sicurezza” in termini di maggior garanzia e di clausole antielusive avrebbe dovuto realizzare la contropartita rispetto ad un aumento della flessibilità in uscita ossia della “manutenzione” o, piuttosto, della manomissione della disciplina dei licenziamenti e, nello specifico, dell'art. 18.

La vera novità, sicuramente peggiorativa sul piano concreto e molto pericolosa su quello dei principi, con riguardo ai contratti precari è che adesso non è più necessario indicare la causale nel primo contratto a tempo determinato con la durata massima di 6 mesi, che venga stipulato fra il datore Tizio e il lavoratore Caio ovvero nel primo contratto di somministrazione con cui il datore Tizio utilizza il lavoratore Caio
tramite intervento di agenzia.

Si dirà, naturalmente, che questa novità costituisce una sorta di patto di prova in forma diversa di un modo di far conoscere i due soggetti di un possibile futuro rapporto, invogliando il datore di lavoro a “provare” quel lavoratore, ma è indiscutibile che la precarietà complessiva viene grandemente aumentata e, soprattutto, liceizzata perché il vero grande riscontro di questi 10 anni di applicazione della d.lgs n. 368 del 2001 in tema di contratti a termine e degli artt. 20 e ss. del d.lgs. 276 del 2003 in tema di lavoro somministrato è stato questo, anche un po' sorprendente: che, grazie alla previsione per cui le esigenze produttive-organizzative-sostitutive, devono essere specificate nella lettera contratto di assunzione, l'abuso del contratto a termine è stato sistematicamente stroncato in giudizio almeno 9 volte su 10.
Il problema è, se mai, che solo una piccola parte dei contratti a termine o di lavoro somministrato illegittimi, per mancanza di specificazione o di vera temporaneità dell'esigenza, sono stati portati in giudizio, ma questo è un altro problema. 
Un problema, cioè, di scarsa capacità di controllo sociale del sindacato, da un lato, e degli istituti previdenziali, dall'altro, e, soprattutto di opacità della nostra organizzazione amministrativa - la quale possiede tutti i dati circa la composizione dell'occupazione nelle singole aziende, e, quindi, anche della dimostrazione concreta degli abusi, ma non li rende conoscibili, nel senso che né il sindacato né l'istituto previdenziale hanno diritto ad accedere a tali dati se non attraverso il meccanismo faticoso e burocratico della specifica procedura contenuta nella legge sulla trasparenza amministrativa (l. n. 241 del 1990).

La controparte datoriale di centro-destra è così convinta dell'esattezza di queste valutazioni che si è preoccupata di introdurre all'art. 32, comma 3, della legge n. 183 del 2010 uno specifico termine di decadenza (60 giorni) proprio per impedire al lavoratore precario - sempre in dubbio se impugnare il contratto appena terminato o sperare in un suo spontaneo rinnovo - di procedere con i necessari tempi di
valutazione e reazione all'azione in giudizio. Questa sanatoria dell'illegalità tramite brevi termini di decadenza della possibile azione viene apparentemente rivisitata dal comma 3 dell'art. 3 del disegno di legge,
ma si tratta di norma di dubbia interpretazione.

Chiarissimo, invece, il comma 5 dello stesso articolo nello specificare che l'indennità compresa fra 2,5 e 12 mensilità con cui lo stesso art. 32, l. 183 del 2010, pretende di “coprire” tutto il periodo tra cessazione del rapporto precario e sentenza, riguardi anche il danno contributivo; e ciò è veramente gravissimo nel senso che viene qui sancito che il lavoratore il quale ha subito il torto di essere assunto come precario laddove il rapporto doveva essere invece a tempo indeterminato un anno deve comunque subirlo sotto forma di un vuoto di contribuzione, che è particolarmente ripugnante in regime ormai di pensione contributiva per tutti.
In definitiva, la riforma della flessibilità in entrata nei suoi principali strumenti costituiti dal contratto di lavoro a termine e dal contratto di lavoro somministrato è quanto mai deludente, perché l'utilizzabilità di tali contratti non verrà ridotta, ma addirittura liberalizzata per il primo contratto concluso fra un certo datore e un certo
lavoratore. Il che costituisce, inoltre e soprattutto, la grave incrinatura del principio per cui essendo il contratto a tempo indeterminato la forma normale di impiego del lavoro, il contratto a termine dovrebbe essere un'eccezione sempre specificamente giustificata anche alla luce della disciplina comunitaria.

I miglioramenti espressi sono ben poca cosa come quelli di portare da 10 a 60 giorni l'intervallo minimo fra un contratto a termine e l'altro o quella dal contenuto incerto riguardante la revisione dei termini di impugnazione. Assolutamente nulla viene detto invece circa l'abuso più comune dei contratti di somministrazione che è quello di reiterarli all'infinito o quasi, senza nessuna apprezzabile ragione, visto che ormai datore e lavoratore ben si conoscono, e quindi sarebbe possibile la stipula di contratti a termine diretti.
L'esigenza più importante resta comunque una, cioè che i dati dei centri per l'impiego sull'utilizzo dei rapporti precari e, specificamente, dei contratti a termini e di lavoro somministrato, siano resi pubblici ossia che venga istituita un'anagrafe del lavoro e che all'ispettorato del lavoro venga riconosciuto il potere di trasformare a tempo indeterminato i contratti illegittimi.
Quanto al preannunziato disboscamento delle altre forme di lavoro precario non è possibile nell'economia di questo breve scritto soffermarsi su ognuna di esse, se non per segnalare che l'abrogazione del contratto di inserimento è comprensibile nel quadro della forte promozione dell'apprendistato, mentre la limitazione, sicuramente piuttosto rigida del contratto di lavoro a progetto, riportato all'idea originaria di contratto di lavoro autonomo -caratterizzato da uno specifico risultato finale ossia da un opus- è apprezzabile ma in fondo poco significativa in concreto, perchè l'abuso dei contratti a progetto era già stato efficacemente perseguito dalla giurisprudenza, di talchè anche il ricorso a tale forma precaria era scemato non diversamente da quello dell'ancor più truffaldina forma dell'associazione in partecipazione con apporto di lavoro alla quale l'art. 10 del disegno si limita ad apporre le stesse cautele che la giurisprudenza ha già da molto tempo individuato.

La vera novità avrebbe dovuto, invece, investire l'altra modalità di lavoro precario che la prassi elusiva del diritto del lavoro ha individuato dopo le “delusioni giudiziarie” che ai datori di lavoro poco scrupolosi ha provocato l'utilizzo del contratto a progetto.
Si allude ovviamente alle c.d. “false partite iva”, tematica che viene affrontata in modo essenzialmente empirico fissando 3 presupposti (durata della collaborazione, importanza del fatturato, sede di lavoro presso il committente) con la precisazione che la ricorrenza di due di essi trasformano la collaborazione autonoma a partita iva in collaborazione parasubordinata e, pertanto, con contribuzione INPS obbligo di foglio paga etc. Non si tratta, peraltro, di trasformazione in rapporto di lavoro subordinato se non tramite la mediazione concettuale dell'art. 69 co. I del d.lgs n. 276/2003 ossia per mancanza di progetto in senso pregnante: come dire se non si tratta di lavoro autonomo puro bensì di collaborazione coordinata e continuativa ne deriva ulteriormente che per quelle collaborazioni per cui sarebbe necessario il “progetto” (e si sa che non sono tutte, restando escluse principalmente quella con la PA e quelle rese dagli iscritti agli albi professionali) la trasformazione si duplica pervenendo al lavoro subordinato. Non vogliamo dire che non si sia fatto nulla ma certamente si poteva fare di più e meglio e la disciplina merita davvero di essere riconsiderata in sede parlamentare, anche per evitare le elusioni che sempre vengono stimolate dalla fissazione di parametri empirici.

* * *

2) FLESSIBILITÀ IN USCITA
Si sa che tutta questa materia è stata affrontata partendo dal concetto che i licenziamenti (individuali) costituiscono una triade: licenziamento discriminatorio, licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Rispetto a questa triade si è posto il problema della sanzione unica o alternativa in caso di illegittimità. L'impostazione governativa era per così dire a “scalare”: reintegra per licenziamento discriminatorio, alternativa tra reintegra e indennizzo economico a scelta del giudice per licenziamento disciplinare e solo indennizzo monetario per licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Era chiaro che un sistema asimmetrico tra licenziamento disciplinare ed economico non poteva funzionare essendo pur sempre il datore di lavoro che -nel momento iniziale- battezza il licenziamento come “disciplinare o economico” con ovvia propensione per quello che in caso di illegittimità non prevede la reintegra.
Questo argomento ha abbacinato l'attenzione dei politici e dei tecnici e si vedrà tra breve come l'apparente vittoria dell'opinione progressista nasconda una scarsa sostanza.
Viceversa sono sfuggiti a quell'attenzione due importantissimi argomenti e cioè che l'art. 15 del disegno di legge tratta anche i licenziamenti collettivi, introducendo un gravissimo peggioramento della disciplina, e che i licenziamenti disciplinari non sono affatto regolati nel senso che l'alternativa tra reintegra e indennizzo possa essere applicata indifferentemente, perché anzi la reintegra può essere applica solo in pochi casi - essenzialmente teorici -, mentre nella grande maggioranza il giudice è tenuto ad applicare solo l'indennizzo.
Insistiamo su questi due aspetti perché, se essi non fossero modificati in sede parlamentare, la riforma dovrebbe essere fermamente rigettata. Per quel che riguarda i licenziamenti collettivi, il fatto è che ora per le violazioni procedurali la sanzione sarebbe unicamente quella economica, mentre la sanzione di reintegra sarebbe limitata alla violazione dei soli criteri di scelta dei licenziati. Detto con più precisione, l’art. 15 da un lato rende sanabile dal raggiunto accordo sindacale eventualmente raggiunto le irregolarità della comunicazione d’apertura della procedura, e dall’altro, sottopone alla sola sanzione di indennizzo economico
le irregolarità della comunicazione finale di cui all’art. 4 IX° comma che costituisce, per così dire, il rendiconto dell’utilizzo dei criteri di scelta dei licenziati, ed è dunque documento delicatissimo, sulla cui regolarità si è molto spesso giocata la sorte delle procedure di esubero.

Chiunque abbia un minimo di esperienza giudiziaria sa che, specialmente negli ultimi anni, la vera difesa contro i licenziamenti collettivi ha riguardato essenzialmente le molte possibili violazioni procedurali, dunque, la riforma equivale a togliere nella grande maggioranza dei casi la reintegra per i licenziamenti collettivi.
Il che, va aggiunto, ridimensiona ancora i presunti successi della reintroduzione della reintegra per i licenziamenti economici: detto in breve, il datore di lavoro che fa 5 licenziamenti invece di 4, ossia un licenziamento collettivo al posto di 4 licenziamenti individuali, si sottrarrebbe al rischio della reintegra, perché rientrerebbe nella più lassista disciplina dei licenziamenti collettivi.

Sui licenziamenti disciplinari il problema è questo: la reintegra è prevista nel caso si accerti che il fatto contestato al lavoratore non esisteva in via assoluta oppure, se esistente, che per esso la disciplina collettiva prevedeva espressamente solo una sanzione conservativa (multa o sospensione), o, infine, che il lavoratore sia risultato estraneo al fatto.
Ma l’ipotesi di gran lunga più frequente, nelle controversie sui licenziamenti disciplinari è quella della mancanza di proporzione tra infrazione e sanzione, e poiché si é al di fuori di quei casi, risulta sanzionata solo con l’indennizzo economico, ferma restando l’efficacia del licenziamento, che, dunque, sarà di gran lunga la soluzione più frequente della lite.
Vogliamo dire che 9 volte su 10 nei licenziamenti disciplinari si discute di un fatto che astrattamente potrebbe dar luogo al licenziamento, ma che viene parzialmente giustificato da ragioni di contesto ossia da attenuanti o esimenti (come nel caso del lavoratore che si sia effettivamente insubordinato, ma solo perché gravemente
provocato).
Il caso del lavoratore accusato di un fatto che non ha commesso o addirittura di un fatto inesistente è poco più che un caso di scuola, e l'ipotesi che il datore di lavoro sia così disavveduto da punire con il licenziamento un'infrazione che il contratto punisce solo con una sanzione minore di multa o sospensione (ad es. sanzione per assenza ingiustificata per un solo giorno) è anch'essa un'ipotesi di scuola.
La normalità delle controversie in materia disciplinare è che il fatto in sé sia più o meno scontato, ma siano le circostanze, le premesse, le ragioni ecc. quelle che determinano poi in concreto la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, e, quindi, la previsione di cui si parla non stabilisce affatto
una semplice alternativa tra reintegro ed indennizzo economico, a discrezione del magistrato, perché, purtroppo, la situazione è ben diversa:il reintegro é previsto per casi limite e solo di scuola, e l’indennizzo, invece, per la massima parte delle controversie vere.

Aggiungiamo che, in ogni caso, l’alternativa rimessa al giudice sarebbe una soluzione paternalistica che ridurrebbe ben presto la giustiziabilità dei licenziamenti illegittimi ad una sorta di pelle di leopardo, con tribunali che applicano sempre prevalentemente il reintegro ed altri che applicano sempre prevalentemente l’indennizzo; d’altro canto, proprio i giudici del lavoro stanno già protestando di fronte alla prospettiva di sentirsi accusare, un domani, di essere pregiudizialmente favorevoli o, invece, contrari al datore di lavoro o al lavoratore, e appaiono ben decisi a respingere come una mela avvelenata il dono del potere discrezionale che il legislatore sembra volere loro consegnare.
Dunque, anche questa disposizione, pertanto, è da rivedere totalmente, anche se si volesse mantenere la cosiddetta “soluzione tedesca”, dell’alternativa tra reintegra ed indennizzo economico: diremmo, per ironia, che bisognerebbe ispirarsi alla vera disciplina di diritto tedesco, nella quale l’alternativa dell’indennizzo economico viene dopo la dichiarazione di invalidità del licenziamento, su istanza di una delle parti che alleghi comprovate ragioni di incompatibilità nella prosecuzione del rapporto.

La tipizzazione delle fattispecie che possono portare o al reintegro o all’indennizzo non ha nulla a che fare con quel sistema, ma è una furbizia di questo disegno di legge che, ancora una volta, sembra promettere molto, ma dà quasi nulla. Possiamo, così, giungere, al punto che ha polarizzato attenzione ed il dibattito
giuridico-politico, è cioè quello dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. La Confindustria grida allo scandalo perché è stato reintrodotto anche qui come sanzione il reintegro, ma un osservatore un minimo avvertito del significato giuridico e della formula utilizzata nel testo legislativo è indotto a ritenere che si tratti o di una finta, o di un’incomprensione, per la buona ragione che la sola ipotesi in cui il reintegro verrebbe disposto è quella di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Tutti comprendono che si è ancora una volta di fronte ad un’ipotesi di scuola: l’insussistenza della ragione addotta deve addirittura essere manifesta, e quindi non ricavabile da indizi o deduzioni, ma palese, come dire, ad esempio, che il datore di lavoro abbia portato a ragione del licenziamento la chiusura di un esercizio
commerciale che è invece tuttora aperto, o un passivo del bilancio, che invece indica un attivo, e così via.
Il che, francamente, non è credibile che avvenga.
Ci permettiamo di dire, senza che ciò suoni sarcasmo per nessuno, che se di vittoria si è trattato nella reintroduzione del reintegro, si è trattato davvero dei una “vittoria di Pirro”.
In tutti gli altri casi di illegittimità c’è solo l’indennizzo economico, nella solita forbice compresa tra 12 e 24 mensilità, ma qui il problema più importante è quello di sapere quali sarebbero questi ulteriori casi, e soprattutto se essi comprendono le ipotesi di cosiddetto licenziamento speculativo, quelle cioè in cui il licenziamento per motivo oggettivo non è connesso ad una difficoltà aziendale di tipo economico o organizzativo, ma solo alla ricerca di un maggior profitto a scapito del lavoratore, come nei casi tipici di ridistribuzione su quelli superstiti dopo il licenziamento degli altri di un carico lavorativo complessivo rimasto invariato, ossia di forte peggioramento della loro condizione lavorativa, oppure quello di esternalizzazione
dei compiti svolti dai lavoratori licenziati con ricorso ad appalti a prezzi minori ecc.

Vi è anche il rischio insomma che “le altre ipotesi “ di illegittimità in cui, secondo la previsione normativa, vi sarebbe comunque un indennizzo economico, si riveli una sorta di “insieme vuoto”, anche perché lo stesso art. 14 dedicato alle sanzioni per licenziamento ingiustificato ,nella sua ultima parte richiama ancora il famigerato art. 30 della Legge 183/2010 (cosiddetto “Collegato Lavoro”), il quale descrive il giustificato motivo oggettivo come un disegno economico produttivo e organizzativo di qualsiasi tipo ideato dal datore di lavoro in base al principio di libertà economica e, dunque, in definitiva, sempre legittimo.
Si è molto lontani da un qualsiasi tipo di effettivo progresso; qui occorrerebbe, a nostro avviso, adottare in indirizzo del tutto diverso, stabilire tipologicamente le fattispecie in cui non c’è il giustificato motivo oggettivo ricomprendendovi almeno le principali ipotesi di licenziamento “speculativo”, e, poi, per il resto, introdurre il
vero rimedio che è costituito dalla prevenzione dell’utilizzo di ammortizzatori sociali conservativi (cassa integrazione o contratto di solidarietà), dopo il cui esaurimento soltanto sia possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che, a quel punto, costituirebbe solo una misura residuale.
In questo senso, si potrebbe istituire una utile connessione con quel procedimento preventivo di conciliazione, che, questa volta, positivamente, il disegno di legge, prevede.

Il problema, in altri termini, è quello di sdrammatizzare la tematica dei licenziamenti per motivo tecnico produttivo, sia individuali che collettivi, il che significa, da un lato, individuare le fattispecie speculative per cui è vietato ricorrevi, e, dall’altro, farli precedere da un tempo di ammortizzazione tramite integrazione salariale abbastanza lungo, da renderli per la maggioranza dei casi, inutili.
Le previsioni del disegno di legge in tema dei licenziamenti si presta anche ad altre considerazioni; vi è, ad esempio, la previsione del VI° comma, non poco bizzarra, secondo la quale, in caso di licenziamento invalido o per difetto di forma, tutto si ridurrebbe al pagamento di un indennizzo anche dimezzato rispetto a quello normale, salvo che il lavoratore chieda che si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso la controversia torna ad essere una normale controversia di licenziamento: ma su quale motivazione ci si chiede, visto che essa era mancata al principio, e chi deve dare l’onere della prova?

Alla fine sembra che si sia qui di fronte ad una sorta di incredibile processo al buio, nel senso che, se il datore di lavoro non motiva il licenziamento, il lavoratore ha la scelta tra prendere un piccolo indennizzo, o contestare lui un licenziamento di cui non è stata data ufficiale motivazione.
Siamo ad una mostruosità giuridica che va semplicemente tolta di mezzo.
Piuttosto, il disegno di legge non tocca minimamente un problema di grande rilevanza, a proposito del reintegro, cioè che quando esso sia ordinato risulti poi effettivo, e non rimanga sulla carta.
Qui sarebbe agevole trovare il rimedio, considerato che nel regime del processo ordinario, l’art. 614 bis del codice di procedura civile, consente al giudice di prevedere in sentenza pene private crescenti, se la parte condannata ad un obbligo di fare non lo esegue effettivamente.

Questa norma però, per espressa eccezione, non si applica la processo del lavoro (non per nulla è stata introdotta dal governo di centro destra): basterebbe togliere l’eccezione con un emendamento di una riga e la reintegra diventerebbe effettiva.
Come si vede, le riforme vere non sono poi tanto complicate.
Una attenzione specifica meriterebbero anche le previsioni in tema dello speciale procedimento previsto dagli artt. 16 e ss. per la trattazione della controversie di licenziamento ivi comprese quelle che conseguono ad un problema di riqualificazione del rapporto, il che significa, per esser chiari, anche delle controversie che nascono dall’impugnazione ad esempio di un contratto a progetto che sia già terminato e che contestano anzitutto che si tratti piuttosto di un rapporto di lavoro subordinato.
Lo schema è quello collaudato del procedimento a fase sommaria che si conclude con un decreto emesso nei trenta giorni dal ricorso introduttivo, salva opposizione davanti allo stesso Tribunale che ha emesso il provvedimento sommario e salvi ovviamente i gradi di appello e di Cassazione successivi, i quali però – e questo è sicuramente un tratto interessante – devono svolgersi in termini molto ristretti (60 giorni per
l’udienza in appello e 6 mesi per quella in Cassazione).

Veramente difficile non esser d’accordo, ma chi conosce il deplorevole stato in cui versano gli uffici giudiziari si chiede come sia possibile sperare in tali performance senza procedere ad un massiccio reclutamento straordinario di Giudici del Lavoro attuato mediante arruolamento anche di operatori già specializzati nella materia.
Poiché è difficile prevedere che il disegno di legge, contestato come si dice da destra e da sinistra, possa avere un iter agevole, sarebbe probabilmente il caso di stralciare questa particolare tematica ed affidarla ad un separato iter sul quale ben pochi potrebbero avere qualcosa da eccepire, perché si tratterebbe di una riforma davvero importantissima riguardando non solo i licenziamenti propriamente detti, ossia i recessi dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma anche tutti quelli che nascono dall’impugnazione di contratti precari e ciò significherebbe davvero investire uno dei problemi principali del mercato del lavoro.

Il disegno di legge comprende poi, come detto, una ulteriore parte, in teoria anch’essa importantissima, riguardante gli ammortizzatori sociali, la cui analisi peraltro esorbita dall’economia di questa breve nota.
Si può comunque notare che appare metodologicamente corretto distinguere come fa il disegno di legge tra trattamenti di disoccupazione e tutele in costanza di rapporto di lavoro, ossia tra ammortizzatori risarcitori ed ammortizzatori conservativi, ma scorretto o meglio non condivisibile è il privilegio chiaramente accordato al primo tipo di ammortizzatori rispetto al secondo e questo è conforme alla ispirazione di fondo dell’intero disegno di legge che è quello di consentire sempre l’alleggerimento occupazionale da parte dell’impresa che, per qualsiasi ragione lo desideri, detto in metafora il tipo ideale di impresa pensato dall’estensore del disegno di legge è quello dell’impresa anglosassone che “agisce ad organetto”, riducendo liberamente il personale a fronte di qualsivoglia convenienza in tal senso e assumendone altri ex novo a presentarsi di nuove opportunità.

E’ chiaro che in questa visuale sono soprattutto importanti i trattamenti di disoccupazione, che il disegno di legge nobilita attraverso una assicurazione sociale a sé stante, l’Aspi, sostitutiva della modesta indennità di disoccupazione sociale che è una delle tante prestazioni assicurative dell’INPS. Nell’altra visuale invece che ha in mente il diverso social-tipo dell’impresa di tradizione europea, ampiamente partecipata e semi istituzionale, sono soprattutto importanti gli ammortizzatori di tipo conservativo (integrazioni salariali, contratti
di solidarietà) la cui riforma-ridimensionamento (diremmo per fortuna) è prevista dal disegno di legge come operativa tra alcuni anni, ossia si potrebbe dire per una successiva era geologica, considerata la velocità con cui si susseguono cicli economici diversi.
Prof. Avv. Piergiovanni Alleva

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mercoledì 18 aprile 2012

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18 - I PARERI


continuiamo a divulgare materiale fuori dal coro sulla modifica dell'articolo 18, pubblicando un altro articolo di un giuslavorista che analizza le conseguenze della riforma del lavoro.

Per aderire all'appello:



di Franco Focareta

Le ragioni che mi spingono a dare un giudizio drasticamente negativo della ipotesi i di “riforma” dell’art. 18 sono le seguenti.      
Quello che si contrabbanda come la conservazione del principio della reintegra nel caso di accertata illegittimità del licenziamento per motivi economici, in realtà è il risultato di una sofisticata operazione chirurgica che si è avvalsa, questa volta, sicuramente della perizia tecnica
. Operazione che non solo trasforma la possibilità di reintegra in  evento assolutamente eccezionale, come lo sono oggi i licenziamenti dichiarati nulli per motivo discriminatorio, ma che addirittura porterà al fatto che il lavoratore nella maggior parte dei casi non avrà più l’interesse ad agire in giudizio per l’accertamento della illegittimità del licenziamento.
Non è vero che è stato importato il modello tedesco,   per il quale il giudice, di fronte alla accertata illegittimità del licenzia,  decide, in base ad una sua valutazione, se ordinare la reintegra o un mero risarcimento del danno. Quello che viene fuori dal disegno di legge è una furbesca interpretazione di quel modello fatta con la perizia di navigati consulenti aziendali che conoscono bene la giurisprudenza in tema di licenziamenti, e conoscendola bene hanno toccato quei tasti che porteranno a scongiurare la reintegra per tutti i licenziamenti motivati da ragioni economiche, salve qualche  rarissimo caso di licenziamento assolutamente maldestro.  
La norma prevede la possibilità, non certo il diritto certo, per il giudice di scegliere tra reintegra e mero risarcimento solo in presenza di “manifesta insussistenza” delle ragioni economiche poste a base del licenziamento, proseguendo poi con la previsione che nelle altre ipotesi, in giudice pure accerta che non ricorre comunque la giustificazione obiettiva addotta dal datore di lavoro, vi sara solo il risarcimento del danno.
Orbene, come sa chiunque calchi le scene delle aule giudiziarie, è rarissima l’ipotesi in cui un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il c.d. licenziamento individuale per  ragioni economiche, venga annullato per “assoluta insussistenza” della ragione economica o organizzativa addotta. Nessun datore di lavoro, soprattutto nell’ambito delle aziende cui si applica l’art. 18, si avventura in un licenziamento, sapendo che quasi sicuramente verrà impugnato, senza addurre qualche concreta motivazione economica, che poi sarà in grado di provare in giudizio: un aridizione di fatturato; una riorganizzazione magari inscenata per l’occasione, una ridefinizione ed accorpamenti di mansioni, sempre reversibile, ecc. Insomma, mai il datore di lavoro si presenta davanti al giudice senza uno straccio di prova di un qualche dato produttivo oggettivo.
I licenziamenti vengono annullati, sempre, non perché sono assolutamente insussistenti le ragioni economiche addotte, ma perché le stesse non sono considerate sufficienti a giustificare un licenziamento, in un giudizio di bilanciamento di interessi che vuole la soluzione del  licenziamento come una extrema ratio; perché il datore di lavoro non ha dimostrato che il lavoratore, il cui posto magari è stato effettivamente soppresso, non può essere adibito ad altre mansioni; perché il datore di lavoro non ha rispettato criteri obiettivi di scelta, richiesti dalla giurisprudenza anche per i licenziamenti individuali. Bene, oggi in tutti questi casi il licenziamento verrebbe dichiarato sempre illegittimo, ma senza la possibilità per il giudice di scegliere tra reintegra e risarcimento.
Anche nel rarissimo caso in cui il giudice dovesse accertare la assoluta insussistenza della motivazione addotta, ci sarebbe solo la facoltà, non l’obbligo, per il giudice di ordinare la reintegra. IL che rende la reintegra più che un evento eccezionale un vero e proprio miraggio per il lavoratore.
Proprio perchè si tratta di un miraggio, e considerato che anche il risarcimento del danno e fortemente limitato rispetto alla disciplina attuale, non solo perchè è previsto un limite massimo di soli 24 mensilità ma anche per i criteri indicati per la sua concreta determinazione, il lavoratore sarà indotto, ad accettare qualsiasi offerta transattiva che non sia insignificante, diciamo che con un offerta di 10-12 mensilità per il lavoratore sarà difficile dire di no,considerato che facendo la causa e vincendola, dopo qualche anno non troverebbe sicuramente la reintegra ma solo un risarcimento di poco superiore.
A spingere il lavoratore in questa direzione vi sarà poi la apposita procedura di conciliazione, nella quale il rifiuto di una eventuale proposta conciliativa diverrà motivo di penalizzazione per il lavoratore nel corso dell’eventuale giudizio; sia ai fini della condanna alle spese di giudizio sia per la determinazione dello stesso risarcimento del danno.
Un bel regalo alle aziende che potranno liberarsi di lavoratori scomodi o troppo costosi, mettendo a bilancio un modesto costo, al massimo un anno di retribuzione, senza affrontare neanche le cause. Costo facilmente recuperabile magari assumendo dopo in pò un apprendista; così anche il modesto costo viene addossato allo stato con la mancata contribuzione.
Il tutto è reso ancora più preoccupante se si pone attenzione che la disciplina rende anche più facili i licenziamenti collettivi. Anche qui nel caso di violazione delle procedure, non ci sarà più la sanzione della reintegra. Si rammenta che nei licenziamenti collettivi il controllo del giudice si limita appunto ai vizi procedurali. Anche questo controllo viene quindi depotenziato.  


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martedì 17 aprile 2012

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18! (parte II)
Modifiche alla cosiddetta flessibilità in uscita
Di Bruno Pezzarossi

Dopo la pubblicazione dell'appello di ieri, continuiamo a smascherare le insidie che si annidano nella riforma del lavoro e lo smantellamento occulto dell'articolo 18, che ci vengono presentati da CGIL e PD come grandi vittorie sulle proposte del Governo. Non può essere considerata vittoria accollare al lavoratore licenziato anche il paradosso di dover dimostrare, senza disporre di nessun strumento per farlo, per quale motivo viene licenziato. 

Per aderire all'appello di ieri:

Agli articoli 13 e 14 il disegno di legge che cambia il mercato del lavoro modifica la legge n.604 del 1966 e
l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
All'articolo 15 viene modificata alla disciplina del licenziamento collettivo per riduzione di personale disciplinato
dalla legge 223/91.

I Modifiche alla l. 15.7.1966, n. 604

Articolo 13: modifiche alla legge 604/66.
Viene modificato innanzitutto l'art. 2, quello che disciplina la comunicazione dei motivi del licenziamento.
In precedenza era stabilito il solo obbligo di comunicare per iscritto il licenziamento: quanto ai motivi, se non
erano indicati nella lettera di licenziamento, potevano essere chiesti dal lavoratore entro 15 giorni, e il datore di lavoro era obbligato a comunicarli nei sette giorni dalla richiesta.

La sanzione, identica per l'ipotesi che il licenziamento fosse dato in forma verbale, o non fossero dati i motivi
nonostante la richiesta del lavoratore, era l'inefficacia del licenziamento, e cioè l'inidoneità dello stesso a produrre, quale suo proprio effetto, la risoluzione del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro era perciò tenuto a corrispondere al lavoratore la retribuzione e versare i contributi, fermo l'obbligo di restituire funzionalità al rapporto di lavoro.
Cosa cambia?

La modifica è ben più significativa di quanto appaia una volta che la si legga in combinazione con
quanto disposto al comma sesto dell'articolo 14: la mancata comunicazione dei motivi del licenziamento,
ora dovuti anche a prescindere dalla eventuale successiva richiesta del lavoratore licenziato, non comporta
più la prosecuzione del rapporto ma, almeno nelle imprese con oltre 15 dipendenti, importa risoluzione del
rapporto "con l'attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formando procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”.

Si tratta di una novità insidiosa, che premia l’uso disinvolto della norma da parte di imprenditori di pochi scupoli:
consentire che il licenziamento senza motivazione sia sanzionato a regime con la sola indennità risarcitoria
minima induce certamente prassi di mala fede che premiano il licenziamento arbitrario.
Il rimedio che il legislatore fa le mostre di approntare per evitare l'abuso del licenziamento immotivato appare
paradossale prima ancora che impraticabile.
Nel nuovo sistema il lavoratore verrebbe infatti gravato dell'onere, impugnando il licenziamento, di
dimostrare che fu licenziato o per un motivo discriminatorio, o per un motivo disciplinare, o per un giustificato motivo oggettivo. Dimostrazione per nulla semplice se mancano manifestazioni di volontà in tal senso riconducibili al datore di lavoro (come è facile supporre che sarà, a meno di non ipotizzare un datore di lavoro autolesionista).Grottesco appare poi indurre il lavoratore licenziato a offrire da sé, in giudizio, la prova dell'esistenza di quei fatti che potrebbero indurre il giudice a ritenere dissimulata una motivazione disciplinare, o oggettiva: dovrebbe cioè dimostrare la sua propria violazione disciplinare, ma anche che essa non fu tale da legittimare un licenziamento ai sensi del quarto comma dell'articolo 14 (perché altrimenti il licenziamento non sarebbe affetto da difetto di giustificazione), oppure dimostrare che il licenziamento fu determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (è questa la definizione del giustificato motivo oggettivo di cui all'articolo tre della legge 604/66), ma anche che tale determinazione fu erroneamente ritenuta dal datore di lavoro (perché diversamente il datore di lavoro avrebbe licenziato giustificatamente).

Questo spostamento dell'onere della prova in capo al lavoratore, coniugato assieme con i ridotti termini per
proporre il giudizio (ora non più 270 giorni, ma 180), e con le severissime decadenze connesse al rito del
lavoro condurrà inevitabilmente a questo risultato: che il datore di lavoro che intenda licenziare tanto per ragioni soggettive che per ragioni oggettive, quando anche le ritenesse sicure e facili da provare, facilmente licenzierà senza comunicare i motivi. In tal modo si assicurerà un vantaggio non indifferente, perché rimetterà al lavoratore di dare la prova della sussistenza dei motivi del licenziamento -per qualificarlo come disciplinare o oggettivo-, senza perdere la possibilità di dimostrare la gravità dell'inadempimento disciplinare del lavoratore, o la effettività e inerenza causale con il licenziamento del giustificato motivo oggettivo. Avrà anzi la possibilità di giocare di rimessa, a fronte di un ricorso del lavoratore che dovrà attivarsi "alla cieca" e dar corpo a ipotesi o supposizioni.

Deve essere ripristinata la sanzione di inefficacia del licenziamento non motivato, nei termini attuali.
Viene in secondo luogo modificato il secondo comma dell'articolo 6 della 604: il termine per il deposito
in cancelleria del ricorso, termine stabilito pena di inefficacia del impugnativa del licenziamento, è ridotto, per i licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della legge, da 270 a 180 giorni.
Sono gli avvocati giuslavoristi che operano per le organizzazioni sindacali dei lavoratori, e i loro assistiti, che
vengono pesantemente penalizzati dalla riduzione del già ristretto termine per il deposito del ricorso davanti al giudice. È certamente vero che anche dalla durata di questo termine dipendono, e giustificatamente, le critiche alla pesantezza delle conseguenze risarcitorie che corrono in capo al datore di lavoro quando il licenziamento viene giudicato illegittimo.

Deve però osservarsi che assieme con la riduzione del termine ben più corretta sarebbe stata una modifica
del regime delle decadenze istruttorie stabilite dal codice di rito: sei mesi possono sembrare molti, ma solo
per chi non si trova a dover affrontare la gran quantità di licenziamenti di questo periodo, e per chi non ha la
preoccupazione di trascurare irrimediabilmente aspetti del licenziamento non indifferenti rispetto all'esito del
giudizio, aspetti che il più delle volte dal lavoratore non sono conosciuti, o della prova dei quali il lavoratore non ha immediata disponibilità.
Non solo: dal momento che con la riforma la misura del risarcimento del danno che decorre dal licenziamento alla reintegrazione può superare 12 mensilità solo per le ipotesi di licenziamento discriminatorio, di licenziamento per causa di matrimonio, di licenziamento della lavoratrice madre o di licenziamento determinato da causa illecita (difficilissime da dimostrarsi, e decisamente infrequenti, la prima e l'ultima, richiedenti approfondimento giudiziale modesto la seconda e la terza) la riduzione del termine prende significato meramente punitivo per il lavoratore e il suo difensore, rendendo più difficile l' impugnativa del licenziamento,senza arrecare alcun vantaggio economico al datore di lavoro (il vantaggio è nella maliziosa aspettativa di un ricorso introduttivo meno accurato).
Viene in terzo luogo introdotto, per il solo licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per le
imprese con più di 15 dipendenti, un tentativo obbligatorio di conciliazione introdotto da una comunicazione alla d.p.l. del datore di lavoro con la quale viene dichiarata l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, sono indicati i motivi del licenziamento stesso e le eventuali misure di assistenza la ricollocazione del lavoratore interessato. È previsto che il lavoratore possa farsi assistere o dall'organizzazione sindacale, o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Le parti possono esaminare anche soluzioni alternative al recesso.
Decorsi 20 giorni dalla convocazione dell'incontro, se non è raggiunto l'accordo, il datore di lavoro può
comunicare il licenziamento al lavoratore. Il comportamento delle parti, desumibile dal verbale redatto in sede di commissione di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla commissione è valutato del giudice per determinare l'indennità risarcitoria dell'articolo 18 (qui il testo del ddl fa riferimento ad un comma ottavo probabilmente soppresso nella versione definitiva), e per il regime delle spese di causa.
L’eventuale monetizzazione del licenziamento non pregiudica il diritto all’Aspi.

La norma là dove prevede un tentativo di conciliazione che precede la comunicazione del licenziamento,
riecheggia il sistema tedesco, ma solo apparentemente: in quel sistema il licenziamento non prende efficacia
fino alla decisione del giudice. Nella riforma proposta dal ddl il datore di lavoro può invece procedere al
licenziamento ben prima, appena sia infruttuosamente esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione o siano decorsi venti giorni dalla convocazione avanti la Commissione di conciliazione.
Appare onestamente difficile credere che questo tentativo di conciliazione possa risolversi con un accordo
che preveda una soluzione alternativa al licenziamento (e cioè con una rinuncia al licenziamento stesso da
parte del datore di lavoro). E ben più probabile che diventi null’altro che la sede ove si stabilirà il quanto della monetizzazione.
Sempre che datore di lavoro non preferisca, come riferito a proposito del primo punto di questa breve nota,
licenziare senza comunicare il motivo.

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Gli aggiornamenti sulle rubriche di "Resistenza Internazionale", 17 aprile 2012

The City of London:
"La Spagna nell'occhio del ciclone"

Per 4 mesi ci siamo sentiti dire che i cambi di governo in Italia e Spagna e l'arrivo di Draghi alla BCE avevano rassicurato i mercati e che si erano messi in sicurezza i conti dei paesi più a rischio. Anzi, Monti ci aveva pure detto che il peggio era passato. Ma non lo era, e mentre le sue responsabilità sono importanti, non sono certo le uniche.
La crisi è di sistema anche se ci siamo ostinati a descriverla come il risultato dei conti truccati ad Atene e della pigrizia dei greci. In effetti in Grecia ne avevano combinate di tutti i colori - con qualche aiuto decisivo delle grandi banche internazionali - ma come spieghiamo la situazione della Spagna attuale?
Guardiamo due dati dell'anno che precede la crisi...leggi tutto l'articolo